domenica 9 novembre 2014

Immedesimarsi nella sofferenza altrui


Constanza art

Cari amici, con questo nuovo post faccio riferimento ad una tematica già affrontata precedentemente con il post "L'empatia per comunicare meglio".

La vita quotidiana ci pone a contatto con varie esperienze in cui la nostra sensibilità ci fa percepire come si sente un'altra persona, di entrarvi in sintonia, di riuscire a leggere i sentimenti e gli altrui stati d'animo. 

L'empatia è, infatti, l'abilità di comprendere ciò che l'altro prova a livello emotivo, attraverso la gestualità, l'espressione del volto, e non solo attraverso ciò che viene espresso a parole.

Ciò si rende possibile attivando tutti i sensi ed una buona attenzione.

Considererei l'empatia come l'immedesimarsi nelle emozioni (inquietudine, disagio, paura, etc…) di un'altra persona senza giungere ad una completa identificazione, ma rimanendo presenti a noi stessi e contemporaneamente essendo in grado di gestire le reciproche sensazioni ed emozioni.

Provare empatia è riuscire a percepire il vissuto emozionale dell’altro, al di fuori della simpatia, antipatia e dei giudizi morali.

A questo proposito, parlando con un amico, sono rimasta colpita dalla sua interessante esperienza che vi propongo qui di seguito e che rappresenta un esempio pratico di come l’empatia non ha a che vedere solo con il cervello, ma anche col cuore, con il mondo delle emozioni.


Sensazioni

Un mattino come gli altri, in autobus. Sale a Mestre una scolaresca, probabilmente una terza media, con evidente destinazione: gita a Venezia. 
Classico arrembaggio al mezzo da parte di una ventina di ragazzi e un paio di insegnanti, quest’ultimi annoiati e noncuranti dell’improvvisa occupazione degli spazi da parte dell’orda. Ma va bene, è normale a quell’età, la gita scolastica consente di lasciar un po' libere le loro inesauribili energie e penso sia comunque difficile contenere oltre una certa misura tutto quell’entusiasmo.

Dicevo, una ventina di studenti, tra ragazzi e ragazze. La più parte si stabilisce nella mia zona, la semovente e snodabile pancia centrale dell’autobus doppio. Assisto, con misto di lieve fastidio e di dovuta tolleranza, alla saturazione degli spazi liberi da parte delle rombanti creature. 

Da qualche tempo ormai non leggo più in autobus, causa sensazione di nausea, ho ripiegato quindi sull’ascolto della radio tramite cuffiette, modalità questa che consente di lasciare libero lo sguardo. 

Rimango dunque lì, ascoltando musica e osservando le scene che involontariamente mi si propongono. In quella mezz’ora di tragitto, c’è modo, volendo, di analizzare nel dettaglio ogni particolare delle persone che ti si trovano di fronte. Ecco dunque che, quasi inevitabilmente, mi trovo ad osservare le dinamiche di formazione dei gruppi tra adolescenti.

Ma quella che catalizza da subito la mia attenzione è una ragazzina di origine asiatica, che se ne sta sola, in disparte, proprio di fronte a me.

La osservo bene, proprio perché isolata, cattura più degli altri il mio interesse. Né bella né brutta, direi normale, sia nell’aspetto sia nel modo di vestire, di quella normalità però che sembra quasi essere costruita apposta per non farsi notare, per non dare nell’occhio, per passare volutamente inosservata. Se ne sta lì, pensierosa, distaccata dal gruppo delle coetanee, sembrerebbe quasi per sua scelta, ma così ovviamente non è, sarebbe innaturale a quell’età rimanersene volutamente da sola, costretta dalla vicinanza ad ascoltare i discorsi degli altri.

Chissà perché questo accade, mi chiedo. Forse è stata inserita in classe da poco, deve ancora farsi delle amicizie, forse non conosce ancora bene la lingua, mah! Mentre penso a queste cose, mi soffermo sui suoi occhi, sull’intensità dello sguardo, sul tremore delle pupille, sulla sensazione di rassegnazione e sconforto che tutto l’insieme esprime. 

Inizio a pensare a quanto dolorosa dovesse essere quella condizione per una ragazzina di quell’età, il sentirsi isolata e non integrata con il resto, cosa fondamentale nell’adolescenza, età in cui assume enorme importanza considerarsi al pari degli altri e far parte di un gruppo. 

Quanto doveva pesarle restarsene così in disparte, quanto avrebbe voluto vivere quella giornata in modo spensierato come avveniva per le altre compagne, quanta angoscia poteva sentire dentro nell’immaginare il proseguo della giornata, sempre in quella situazione di costante separazione. 
Come può una ragazzina indifesa e non attrezzata nei confronti delle avversità della vita, superare una così difficile situazione senza rimanerne ferita e senza riportarne poi delle conseguenze nella vita futura?

A tutto questo pensavo, quando sento salirmi da dentro, dal profondo, una sensazione forte di … commiserazione, di condivisione, di desiderio di consolazione, ma molto intensa, davvero. Mi prende la gola, mi rende addirittura lucidi gli occhi, cosa che mi capita davvero raramente, mi sento stringere dentro, nel desiderio inesprimibile di confortare quell’esserino indifeso, di rassicurarlo, di proteggerlo dal dolore che stava provando. Mi sento pervaso da questa strana e indefinibile commovente emozione, nuova e, credo proprio, di origine spirituale.

Non potendo e non sapendo cosa fare, rimango così, immobile e pensieroso, come intento ad assorbire parte della sua sofferenza, a poca distanza da quegli occhi tremanti e preoccupati per il giorno che doveva venire, piacevole per tutti gli altri e tremendamente difficoltoso per lei.

E quindi, non potendo agire direttamente (sarei stato di sicuro frainteso) … prego. Prego dentro di me per lei, chiedendo l’intercessione di qualcuno che sta in alto, che possa in qualche modo alleviare la sua sofferenza.

Di questa empatia verso gli altri, questa capacità di immedesimarmi nelle condizioni altrui, sento aumentare l’intensità, anno dopo anno. E’ come se stessi sviluppando una nuova abilità, che però spesso porta con sé il peso di dover percepire le difficoltà delle persone. 
Ma se nulla avviene per caso, se tutto persegue una finalità superiore, anche questa cosa deve avere un preciso significato. La semplice condivisione non avrebbe logica se non fosse supportata dalla capacità di poter recare conforto, anche in minima misura, a quanti percepisco averne bisogno. 

Ecco dunque la convinzione che qualche cosa devo pur avere il potere di fare! Altrimenti tutto ciò non avrebbe senso, ma cosa? In quel caso sicuramente qualcosa di spirituale, null’altro mi era consentito. 

Ed infatti, l’unica cosa che mi è venuta in mente, credo non a caso, è stata la preghiera. E a quella preghiera ho affidato tutta la mia richiesta di far star bene quel fragile fiore e far accompagnare da un angelo la sua difficile giornata. Spero, confido, che qualcuno possa avermi ascoltato.

Paolo S.

(Illustrazione: Constanza Art)

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